Nella mente
del terrorista islamico
GIOVANNA REZZONI & MONICA LANFREDINI
NOTE E
NOTIZIE - Anno XX – 21 gennaio 2023.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]
Introduzione. Non sono stati ancora individuati i tratti molecolari,
cellulari e di circuito che determinano la modificazione funzionale delle reti
neuroniche corrispondente allo stato di completa immersione della fisiologa
psichica in una dimensione ideologica, o plagio mentale[1],
per cui non possiamo ancora parlare di uno “stato del cervello”, ma dobbiamo
rimanere al livello psicologico. In termini di attualità[2],
ci è stato rappresentato il desiderio di conoscere qualcosa di più del
funzionamento mentale di chi sembra rinunciare all’autonomia di giudizio,
seguendo per fede criteri, valori e dettami anche quando in contrasto con evidenze
di realtà e contrari alle spinte biologiche elementari del soggetto stesso,
prima fra tutte l’istinto di sopravvivenza.
Una
trattazione adeguata ed esaustiva di questa tematica richiederebbe un lungo
saggio che affronti organicamente la materia, cominciando dalle definizioni terminologiche
e proseguendo con quei risultati degli studi classici che costituiscono punti
fermi per la ricerca corrente, ma lo scopo di informazione sintetica e
aggiornamento immediato di questa nota non è compatibile col tempo e lo spazio necessari
a un simile lavoro, e ci impone l’essenzialità.
Allora
prendiamo le mosse da un concetto originale della nostra scuola neuroscientifica,
emerso da alcuni studi condotti dal nostro presidente[3]
in passato: lo stato neurofunzionale alla base della dimensione mentale catafratta
dell’indottrinato o plagiato costituisce un insieme in equilibrio stabile
e, in quanto tale, economicamente vantaggioso in termini energetici e, per
questo, tendente ad autoconservarsi.
A questa
condizione di stabilità, che costituisce la base neurobiologica dell’apparente immodificabilità
delle convinzioni e delle credenze, si giunge generalmente attraverso un periodo
di istruzione intensa, metodica e protratta, che include nei contenuti riferimenti
metacomunicativi espliciti sul valore della dottrina o dell’ideologia trasmessa:
ossessivamente si ripete, in base a una dicotomia morale elementare e
paradigmatica, la distinzione tra ciò che è giusto, e appartiene a quell’insegnamento,
e ciò che è sbagliato, e pertanto se ne discosta.
Nelle varie
scuole coraniche e campi di addestramento al jihad si promuove e si coltiva il
sentimento di appartenenza al topos immateriale dell’Islam, ossia della
sottomissione a Dio, e si induce un’identificazione con i fedeli ai quali si è
uniti nello spirito che distingue e separa dagli infedeli.
Qualche
sintetico riferimento all’ambiente storico, religioso e politico della mente
dello shahid. Prima di
proporre alcune considerazioni generali su fatti e questioni del terrorismo islamista
divenuto globale dall’attacco dell’11 settembre 2001, desideriamo subito
affrontare la questione del suicidio-omicidio su cui sono stati versati fiumi
di inchiostro negli ultimi vent’anni, spesso adottando impropriamente il modello
dei kamikaze giapponesi.
Il giudizio è
controverso e le opinioni sono discordi anche nel mondo islamico, perché siamo
in presenza di una contraddizione presente nel Corano: il suicidio è
apertamente condannato nel libro sacro dei musulmani ma, allo stesso tempo, si
proclama shahid, martire della fede e testimone della verità divina
rivelata dal profeta, chi va incontro a morte per dare la morte nel jihad. Si
capisce, dunque, che alcuni sostengano che l’esplicita condanna del suicidio
non ammetta eccezioni e che la morte nel jihad che rende martire sia solo
quella per mano del nemico, e altri invece, facendosi forti di alcune antiche
tradizioni interpretative, siano persuasi che il fine di uccidere gli infedeli
giustifichi il suicidio. Inutile dire che nei campi di addestramento terroristico
si imponga nell’indottrinamento come certa la seconda lettura.
I giornalisti,
per designare gli attentatori suicidi islamici, hanno a lungo impiegato la
parola giapponese kamikaze, che indicava i piloti dell’aviazione
militare del Giappone che si schiantavano con l’aereo contro l’obiettivo da
distruggere nella II Guerra Mondiale. Un accostamento improprio che denotava l’ignoranza
del fenomeno e delle sue antiche origini presso i seguaci di Maometto (Muhammad).
A parte le Tigri Tamil dello Sri Lanka, che da quando Velupillai
Prabhakaran le fondò fino al 2009 hanno vantato il più alto tasso di missioni
suicide al mondo[4], per decenni
gli attentati terroristici in Palestina sono stati compiuti da attentatori
suicidi di Hamas, Jihad e al-Aqsa ispirati a una
tradizione criminale islamica medievale avviata nel 1107 da al-Hasan ibn as-Sabbah detto il Vecchio
della Montagna; in proposito leggiamo Luciano Pellicani: “…la setta di
assassini suicidi fondata dal Vecchio della Montagna, che, fra il XII e il XIII
secolo, terrorizzò il Medio Oriente. Un precedente al quale, sia pure
indirettamente, si è richiamato nell’aprile del 2002 lo sceicco Muhammad Sayyed
Tantawi, il quale […] ha dichiarato che le ‘operazioni di martirio’ sono la ‘forma
più alta delle operazioni di jihad’ e che devono essere considerate un comandamento
islamico”[5].
Dunque, anche
se vari interpreti contemporanei di differenti versioni della religione
coranica negano l’ortodossia delle sette di terrorismo internazionale nate sull’esempio
di al-Qaida fondata da Osama bin Laden nel 1988, queste bande armate di
attentatori suicidi sono state aggregate sulla base della suggestione di
ortodossia di una setta islamica fondata circa mille anni prima. È importante
notare che il Vecchio della Montagna era sciita, mentre Osama bin Laden
era sunnita, quindi, considerando la discordia antagonistica nella
visione religiosa e le numerose guerre tra sciiti e sunniti, si può affermare
che l’ideologia dei votati alla morte attraversi tutto l’islam e non appartenga
esclusivamente a una parte. E una tale osservazione ci rinvia al Corano.
La
visione del mondo degli shahid può considerarsi un’aberrazione della
cultura araba tradizionale. Il
grande storico medievalista Jacques Le Goff ha insegnato per primo a tutto il
mondo occidentale alcuni aspetti della concezione araba della realtà che si
discostano radicalmente dalla visione fondata sui paradigmi conoscitivi tipici
della cultura greco-romana e giudaico-cristiana. Un esempio per tutti emerge
dal confronto tra la storia geografica di Erodoto, col suo potere di collocare
nella dimensione dei luoghi le memorie dei fatti generando nuovi livelli di
comprensione delle vicende umane, e l’assenza della geografia nella cultura
araba tradizionale. Gli Arabi antichi non solo non avevano la geografia
politica, ma di fatto mancavano anche di quella fisica. E, non solo non
attribuivano nomi propri toponomastici, ma nemmeno determinavano in modo
univoco e riconoscibile un elemento geografico. Facciamo l’esempio di due nomi
arabi che scriviamo per chiarezza in italiano: Giordano vuol dire “il
fiume”, Libano vuol dire “il monte”.
Questa
astensione derivava da una rigida interpretazione letterale di un passo del
Corano. Quando lo sviluppo civile, economico e commerciale dei territori arabi portò
a stabilire relazioni non più sporadiche con le popolazioni vicine, l’esigenza
di identificare con precisione i luoghi convinse gli Arabi ad adottare la
geografia dei Romani.
L’adozione del
sapere e del metodo geografico romano per secoli rimane una delle poche eccezioni
alla separazione dalle tradizioni ellenistiche e cristiane.
Ma vediamo,
più in generale, qual era l’insegnamento del messaggero di Dio, o Rasul
Allah, Maometto: il mondo si divide in due soli territori, che sono il
Dar al-Islam e il Dar al-kufr, il primo è
la Casa della Vera Religione che implica la sottomissione a Dio (o Islam),
il secondo è la Casa della miscredenza detta anche Dar al-harb, la Casa della guerra, perché fuori del territorio
dell’Islam impera il jihad. In proposito commenta Luciano Pellicani: “La guerra
santa, dunque, contrariamente a quello che certi studiosi […] si sono impegnati
a dimostrare contro l’evidenza della lettera e dello spirito del Corano, fu
concepita da Maometto come un dovere religioso. Tant’è che un hadith dice
che il jihad è il monachesimo dell’Islam e che coloro che combattono
sulla via di Dio – i ghazi – sono destinati ad
entrare immediatamente nel Paradiso. E non si tratta solo di una guerra
difensiva, bensì di una guerra offensiva, di una guerra imperialista, che
cesserà solo quando la ‘religione della Verità’ trionferà su tutto il pianeta
Terra”[6].
L’idea che
sostiene le sette fondamentaliste è che esistono solo due – e soltanto due – partiti
nella realtà umana: il partito di Dio (Hizb-Allah)
e il partito di Satana (Hizb-Shaytan) e,
dunque, tutti coloro che in qualsiasi forma si distinguono da loro o seguono
scopi diversi da quello che li anima, possono considerarsi appartenenti al
partito del demonio. D’altra parte, che i fedeli dell’Islam possano
considerarsi giustizieri di Allah si deduce dal Corano: “Quando il tuo Signore
disse, per rivelazione, agli angeli: io sarò con voi, rendete saldi quelli che
credono, io getterò il terrore nel cuore di quelli che non credono, e voi colpiteli
sulle nuche (decapitateli) e recidete loro tutte le estremità delle dita.
Questo dovranno soffrire, perché essi si sono opposti a Dio, e chiunque si
oppone a Dio e al suo apostolo, sappia che Dio sarà violento nel punirlo.
Questo è il vostro castigo, verrà detto loro, subitelo, perché per i
miscredenti è destinato il tormento del fuoco”[7].
E se da questo passo può sorgere qualche dubbio che il comando sia rivolto agli
angeli e non agli uomini, queste parole non danno adito a incertezze: “Uccidete
i politeisti, ovunque li troviate, prendeteli prigionieri, assediateli e opponetevi
a essi. […] Combatteteli, dunque; Dio li punirà, per mano vostra”[8].
Dunque, l’attività
criminale delle sette islamiste trae motivo dal seguire alla lettera questi comandi,
che saranno in vigore fino a quando tutto il territorio del mondo apparterrà al
Dar al-Islam e quindi cesserà il jihad.
In una parte
del mondo islamico c’è chi considera questi comandi rivolti alle epoche
storiche in cui esisteva un fronte permanente di guerra fra popoli cristiani e
popoli arabi; secondo questa contestualizzazione storica, oggi il mondo non-islamico
può considerarsi territorio di conquista in cui affermare la parola del Rasul
Allah o, come diremmo noi, “convertire gli infedeli”. Ma è facile per i
fondamentalisti dimostrare che questa sia un’interpretazione “eretica”, perché
non è scritto così nel Corano[9].
Se tuttavia
consideriamo l’insieme della cultura araba dalla sua origine, dal tempo in cui
vi era amicizia tra Giudei e Arabi di Palestina, quando questi ultimi traducevano
in arabo i libri di medicina greca ippocratica poi adottati dai medici ebrei
che, con quella scienza, acquistavano fama e prestigio presso le corti di tutta
Europa, l’appiattire tutto il senso della vita sulla guerra agli infedeli,
senza lasciare spazio ad alcuna altra dimensione dell’esperienza, ci appare
come un’assoluta aberrazione.
Nella
mente del terrorista suicida islamico: un lucido criminale o una vittima di
plagio? Sappiamo dagli studi e
dalle esperienze di psichiatria forense quante difficoltà ponga l’adozione del
concetto di plagio mentale e perché in molti ordinamenti giuridici non sia
contemplato come reato: non solo è controversa l’idea che una mente sana possa
essere privata della sua facoltà di libero giudizio, ma sussiste anche per chi
ammette questa possibilità il problema di definire i limiti con le comuni,
molteplici e spesso non riconosciute influenze esercitate da persone e saperi
sulla nostra mente. Si può concordare circa il fatto che, nei casi in cui la
manipolazione della volontà della persona appare indiscutibile, si è avuta un’alterazione
della base cerebrale della coscienza mediante l’impiego di sostanze psicotrope
o di tecniche ipnotiche.
L’oggettivo
potere dell’indottrinamento non può dunque essere ritenuto con certezza capace
di privare il soggetto, sia pur limitatamente alla sfera dell’ideologia, delle
capacità di intendere e volere, ossia di due requisiti necessari per l’imputabilità
nel nostro ordinamento. Possiamo osservare che la presa ideologica, a
differenza dell’intervento ipnotico o farmacologico, non consiste in un effetto
“tutto o nulla” e, dunque, verosimilmente esistono gradi diversi nella perdita
inconsapevole di libertà di giudizio e differenze individuali nella gestione
psicologica dello stato mentale e dei contenuti culturali.
La restrizione
della mente al paradigma ideologico, secondo quello stile considerato in
passato espressione di fanatismo, si ritiene comporti un’intima adesione
e sovrapposizione dell’identità del singolo a quella collettiva di tutti gli
aderenti allo stesso pensiero. L’aspetto particolare riguarda il tipo di
meccanismo psicologico e l’entità di estensione del fenomeno all’interno delle
risorse psichiche. Perché, in generale, il processo di identificazione fa parte
della nostra vita, produce effetti particolari, ma non sequestra le facoltà necessarie
all’esercizio della critica e del giudizio circa ciò con cui ci siamo
identificati. Un esempio è il “tifo sportivo”, in generale, e quello calcistico
in particolare: la riprova che sia in questione l’identificazione è nel fatto
che il tifoso vive con patema o sofferenza i rischi della squadra durante una
partita, patisce un dispiacere in caso di sconfitta, esulta di gioia alle reti
e per la vittoria, come se le vicende della sua squadra riguardassero la sua
persona, la sua vita. Eppure, in tutti i casi non patologici, il tifoso dopo l’evento
riesce a prendere le distanze e, con tutte le differenze individuali e di
circostanza che si possono immaginare, può discutere lucidamente di quanto è
accaduto e ricondurre i fatti alla loro reale dimensione, anche se durante l’incontro
ogni episodio saliente sembra per lui questione di vita o di morte.
Gli studi
recenti distinguono due possibilità di “allineamento” psicologico con i membri
di un gruppo: 1) identificazione, in cui l’identità del gruppo e l’identità
personale rimangono distinte; 2) fusione, in cui le identità personali e
di gruppo sono virtualmente fuse, funzionalmente equivalenti e capaci di rinforzarsi
reciprocamente[10].
Questa chiave
di lettura consente di avvicinarsi un po’ di più, concettualmente, a ciò che
accade nella mente di chi è totalmente preso da un solo tipo di visione della
realtà. Infatti, si è accertato che tra gli “individui altamente fusi”, cioè
con una estesa e profonda assimilazione interiore al gruppo umano di
appartenenza, l’identità di gruppo interviene direttamente nell’agire personale
e, dunque, ogni attacco rivolto al gruppo è percepito da queste persone come
una minaccia o un danno personale e motiva una volontà forte e determinata a
lottare, combattere e, se necessario, anche morire per difendere questa
espansione collettiva di sé stessi. Kavanagh e colleghi osservano che la fusione
di identità in quanto tale è rilevante perciò per spiegare la possibilità psicologica
di concepire ed eseguire atti di estrema e cruenta violenza omicidiaria, quali
quelli del fanatismo islamico, inclusi gli attacchi terroristici suicidi.
Si è
teorizzato che la fusione di identità tragga origine come risultato da esperienze
che sono 1) percepite come condivise e 2) trasformative. Anche se le evidenze a
sostegno di questa relazione rimangono molto limitate. Per tale ragione, Kavanagh
e colleghi hanno posto in essere uno studio in cui esaminano il ruolo del
potere trasformativo e della condivisione percepita di eventi che definiscono
il gruppo nel generare la fusione di identità.
In questo
studio di collaborazione britannico, giapponese e indonesiano sono stati
studiati musulmani indonesiani. Sia il potere trasformativo che la condivisione
percepita sono risultati alle analisi predittivi di fusione di identità,
ma il rapporto col potere di trasformazione è risultato maggiormente coerente del
rapporto con la condivisione percepita[11].
L’indagine di
Kavanagh e colleghi fornisce un significativo elemento di conoscenza per capire
quale fattore abbia un peso maggiore nel processo di fusione di identità, ma
non spiega cosa consenta di andare contro la pulsione di vita e l’istinto di
sopravvivenza e darsi la morte, come dicono loro “per difendere l’insieme o gruppo
dei fedeli dell’Islam”, anche se in realtà si tratta di vendicare l’offesa
arrecata al gruppo.
Chi ha potuto intervistare
gli uomini addestrati alla guerra santa o jihad, ha rilevato una piena immersione
della coscienza nel presente e un’intensità dell’elaborazione attuale
considerevole; questo assetto funzionale, simile a quello delle persone abili e
di umore elevato che passano da un successo all’altro in un’attività intensa e gratificante,
è sufficiente ad allontanare la paura della morte. Nella parte esplicita o
dichiarativa della loro coscienza l’indottrinamento ha rafforzato il concetto overlearned, cioè superappreso,
del suicidio come semplice passaggio alla vita immortale. In qualità di shahid,
ossia “martire della fede”, l’attentatore suicida ha il paradiso islamico
assicurato, per questo non meraviglia che possa vivere come uno studente che si
prepara per un esame l’addestramento per gli atti che lo porteranno a morte,
dando la morte a tante altre persone.
Ciascun lettore,
secondo il proprio giudizio e magari seguendo i propri interessi, può essere attratto
più dall’aspetto della loro certezza assoluta di passare alla vita immortale o più
dall’efficienza entusiastica con cui si preparano, ma a nessuno sfugge la necessità
di uno stile psichico complessivo per concepire e condurre in quel modo
innaturale la propria esistenza, uno stile che non si discosta molto dal profilo
di personalità del fanatico religioso descritto dalla psichiatria del secolo scorso.
Ma rimane l’interrogativo
al quale non dà riposta lo studio di Kavanagh e colleghi: come è possibile giungere
in uno stato mentale che consente di andare contro l’istinto di sopravvivenza?
Se eccettuiamo il caso di coloro che assumono sostanze psicotrope, inclusi psicodislettici
allucinogeni, sono state percorse, per trovare risposta, due vie che non si
escludono a vicenda: 1) la prima riguarda una manipolazione neutralizzante
della rappresentazione mentale della morte; 2) la seconda riconduce il
comportamento innaturale a probabili effetti neurofunzionali del plagio
mentale operato mediante l’indottrinamento.
La
manipolazione della rappresentazione mentale consisterebbe nel fatto che la
realtà del significato della morte come fine della propria esistenza risulta
cancellata o occultata dalla nozione del “passaggio” in una dimensione differente
e senza tempo. In altri termini, un processo che va oltre il meccanismo
psicologico automatico e involontario del diniego, e crea un luogo mentale
– verosimilmente in forma di memoria concettuale esplicita – investito di
affettività positiva e sovrapposto all’assoluto della negatività implicito
nella rappresentazione “naturale” della morte.
Per discutere
il modo in cui si ritiene possa operare il plagio mentale, è necessario prendere
le mosse da alcune caratteristiche fisiologiche della cognizione umana e
considerare come possano essere alterate da particolari esperienze.
Alcune peculiarità
del funzionamento cerebrale alla base della cognizione elementare si possono riconoscere
anche attraverso il sofisticato livello costituito dal nostro modo di pensare e
giudicare. Ad esempio, il cervello tende a giudicare per comparazione e
a basarsi su elementi di esperienza, seguendo una scala di importanza che
elegge a valore prioritario l’attualità.
Per capire il
giudizio per comparazione del cervello basta considerare la valutazione della
temperatura dell’acqua sulla nostra pelle, cioè l’elaborazione delle
informazioni del termo-tatto cutaneo: la stessa acqua della doccia che sulla mano
ci sembra alla giusta temperatura, sulla schiena ci sembra fredda, perché il
cervello giudica per comparazione, calcolando lo scarto tra la temperatura della
specifica area cutanea e la temperatura dell’acqua e, visto che la pelle del
dorso è più calda, lo scarto termico è maggiore.
La tendenza
del cervello al giudizio naturale basato sull’esperienza, diretta o indiretta,
costituisce un piccolo patrimonio di conoscenza fin dall’infanzia: tutti
sappiamo che l’acqua bagna, il fuoco brucia, gli asini non volano e così via.
Il giudizio
per comparazione qui proposto è un esempio di utilizzo di informazioni attuali
per una valutazione naturale elementare, come l’esempio di conoscenze basate su
esperienze dirette o indirette si considera immediatamente fondato su memorie
della specie; questi due tipi di processi sono alla base di quello che normalmente
si chiama buon senso. Il buon senso, in inglese common wisdom, in realtà è parte di una dotazione psichica
presente in tutte le persone normotipiche, che prescinde
dalla cultura e include i processi mentali al servizio della sopravvivenza dell’organismo,
dalla soddisfazione dei bisogni primari alla protezione di sé stessi e all’autostima.
Questa
parentesi neurofisiologica è stata necessaria per introdurre una questione importante
per proseguire nell’esame dei problemi posti dal tema di questo aggiornamento: esistono
alcuni stati della mente sana, simili a condizioni neuropatologiche e psicopatologiche,
in cui il tipo di funzionamento complessivo intacca questo livello di dotazione
psichica di base, disattivando alcuni processi naturali.
In proposito
Robert Ornstein riporta una vicenda narrata dallo scrittore ceco Milan Kundera,
con una sua amica quale protagonista. La donna, madre di un bambino di un anno,
viene arrestata e condannata all’ergastolo da innocente durante i processi
stalinisti di Praga; riabilitata e scarcerata 14 anni dopo, può riabbracciare
suo figlio, ormai quindicenne. Nei dieci anni seguenti si dedica all’educazione
del figlio e, un giorno, Milan va a farle visita. Il narratore ceco la trova
piangente, disperata e amareggiata, perché il figlio non si è destato e alzato
presto quel mattino, allora le chiede come mai per una cosa così banale stia
facendo una tragedia e retoricamente le chiede: “Non ti sembra di esagerare?”
Ma interviene il figlio e dice che sua madre non sta esagerando, perché sua
madre è una splendida donna coraggiosa che ha resistito quando tutti gli altri
sono crollati, e vuole solo che lui diventi un vero uomo; è vero che lui ha
solo dormito un po’ troppo, ma sua madre lo rimprovera per qualcosa di più
profondo, ossia il suo atteggiamento egoistico, e lui è pronto a diventare come
sua madre lo vuole e, per questo, chiama a testimone Milan Kundera della sua
solenne promessa che lo farà[12].
Ognuno può fare
le proprie considerazioni su questo episodio, che si presta a differenti
letture ma, senza entrare in un’analisi approfondita della psicologia della
diade madre-figlio, risulta evidente che l’atteggiamento mentale di questo giovane
adulto è di completa adesione al desiderio della genitrice che gli ha trasmesso
il suo modello ideale e reale di uomo: per diventare un vero uomo –
implicitamente ammettendo di non esserlo ancora a venticinque anni – esiste un
solo modo, che consiste nell’imparare ad agire in tutto e per tutto come lei
vuole. Questa influenza psicologica, a seconda delle nostre convinzioni, può
essere declinata in una gamma che va dal ritenerla normale, anche se un po’
forzata per l’età adulta, al ritenerla un vero e proprio plagio. Di certo è una
testimonianza di quanto una particolare condizione di rapporto, in quello che è
il legame naturale più speciale che esista, favorisca la possibilità che una
mente sia completamente immersa in un modo di pensare acquisito, al punto da
non provare a esercitare il pensiero in alternative, come se questo riflettere
fosse precluso, impossibile o proibito.
La proibizione
interiore, appresa col sapere religioso attraverso il concetto di peccato e
studiata dalla psicologia del profondo col nome di “tabù”, si ritiene che
costituisca il suggello che assicura la fedeltà all’indottrinamento, anche
quando il rimanere fedeli richieda forza di volontà o coraggio.
In proposito,
un altro caso risalente ai processi stalinisti, spesso narrato da Robert
Ornstein[13] e più
vicino al nostro interesse per la mente del terrorista islamico, riguarda un
uomo che si era identificato fin da giovane con il partito, al quale tributava
una fedeltà devota e una cieca obbedienza, quali espressioni di un culto idolatra
per la massima espressione possibile della giustizia fra gli uomini. Accusato e
condannato senza prove, fu torturato fino a quando emerse la sua innocenza: le
torture gli lasciarono segni, cicatrici e dolori cronici, ma lui non volle mai
pronunciare una sola parola contro il partito, preferendo tacere per sempre su
quell’argomento.
Ma soffermiamo
ora l’attenzione sugli ipotetici processi mentali.
A quel livello
di funzione cerebrale che convenzionalmente identifichiamo con la coscienza esiste
una speciale attività corrispondente al nostro Io, ossia al soggetto padrone di
sé stesso. A questo livello, nella fisiologia della mente sana, esiste un centro
focale speciale per il soggetto, in cui la dimensione di verità della
realtà nei termini di autenticità e certezza ha l’imprimatur dell’esperienza
personale. In questo centro focale, se è vero ciò che abbiamo appreso
per nozione, ossia, ad esempio, che una remota città di un paese lontano è
bagnata dal mare, è ancora più vero ciò che si è costituito nella mente sulla
base della diretta percezione empirica e degli stati da questa derivati che hanno
interessato lo stesso centro focale. E, dunque, in questo spazio intimo
è più vero in termini di autenticità e certezza ciò che mi dà piacere o dispiacere
del fatto che la città remota sia bagnata dal mare. La natura speciale di questo
centro focale è rivelata proprio da un’attribuzione di valore strettamente
legata all’identità del soggetto[14].
L’Io di una
mente sana in condizioni ordinarie non cede mai la signoria di questo centro
focale. Nel plagio mentale si suppone che avvenga qualcosa di simile al cedere
a qualcun altro o a qualcos’altro potere su questa attività cerebrale nella sua
dimensione psichica. Una sorta di rinuncia al privilegio di soggettività[15]
della parte più intima della coscienza. Una rinuncia che invece appare come un furto
agli occhi dell’osservatore, quando viene estorta operando sulla mente di
qualcuno con un mezzo suggestivo, ipnotico o farmacologico per indebolirne la
coscienza.
Considerazioni
conclusive. Abbiamo deliberatamente
escluso la discussione relativa all’influenza delle sostanze psicotrope sul
cervello degli adepti, perché una corretta valutazione degli effetti di queste
sostanze sugli aspetti qualitativi della funzione psichica richiederebbe uno studio
specifico per tipo di molecola, dose, durata dell’assunzione, associazione con
altri composti agenti sul cervello e, infine, per ogni droga, confronto del
comportamento con adepti che non l’assumono[16].
Senza la possibilità di un simile studio ci siamo accontentate di considerare
gli psicotropi come un semplice supporto o rinforzo, temporalmente circoscritto
all’assunzione, per uno stato di coscienza conseguente a quanto abbiamo
analizzato e discusso, e che qui vale la pena concettualizzare in una sintesi
estrema.
Secondo le
conoscenze attuali, si ritiene che lo stato mentale del terrorista suicida consista
in una possibilità di funzionamento globale del nostro cervello evocata
dall’indottrinamento e caratterizzata dalla fusione di identità con l’insieme
degli appartenenti all’Islam, e da una rinuncia alla soggettività indipendente,
con ogni probabilità connessa col processo mentale di neutralizzazione della
rappresentazione naturale della propria morte.
Se queste
interpretazioni sono corrette, allora è lecito attendersi che, come altri stati
mentali non patologici, questo stile psichico sia reversibile. Facendo conto su
questa reversibilità si può sperare in un lavoro di infiltrazione di questi gruppi
da parte di musulmani non jihadisti, in grado di fornire strumenti culturali agenti
da leva per l’assunzione di una prospettiva esterna a quel sistema di idee, che
ha occupato in modo assoluto e totalizzante la dimensione del pensiero di
questi terroristi. Probabilmente questo sarebbe il modo migliore di
disinnescare migliaia di bombe umane latenti e sparse nei cinque continenti.
Le autrici della nota ringraziano
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura delle
recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna Rezzoni & Monica
Lanfredini
BM&L-21 gennaio
2023
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di
Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice
fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Nel 1999 la Commissione sulla Sicurezza
e la Cooperazione in Europa del Congresso degli USA ha definito la parola plagio
“la versione italiana del brainwashing”, cioè
del “lavaggio del cervello”. Il termine brainwashing
è comunemente impiegato per indicare l’indottrinamento integralista (Lucas
& Robbins, Psychology Press 2004).
[2] Dopo il comunicato del 14 dicembre 2022 dell’accordo tra la Presidenza del Consiglio
e il Parlamento Europeo per migliorare lo scambio di informazioni sui
terroristi, ci sono giunte richieste di illustrare i caratteri della mente
plagiata.
[3] Si recò anche a San Francisco da
Robert Ornstein per avere notizie su un suo progetto di ricerca sullo “shifting of minds in places” indotto dalla propaganda
ideologica o religiosa e sulla differenza con ciò che accade nella mente per
effetto del plagio. Il presidente tornò con un libro e molti appunti messi poi
a disposizione della società, ma Robert Ornstein non proseguì quegli studi.
[4] Cfr. Luciano Pellicani, Jihad:
le radici, p. 81, Luiss University Press, Roma 2004.
[5] Luciano Pellicani, Jihad: le
radici, op. cit., p. 86.
[6]
Luciano Pellicani, Jihad:
le radici, op. cit., p. 85.
[7] Il Corano
VIII: 12, 13, 14.
[8] Il Corano IX: 5
e 14.
[9] Gli Ulama, considerati
interpreti e custodi della Sunna, hanno adottato per secoli interpretazioni
moderate degli elementi escatologici e millenaristici del messaggio coranico,
favorendo un’interpretazione pacifica della militanza islamica, contro la quale
si sono costituite le sette terroristiche.
[10] Christopher M. Kavanagh et al., Exploring the Pathways
Between Transformative Group Experiences and Identity Fusion. Frontiers in
Psychology 11: 1172, eCollection 2020.
[11] Christopher M. Kavanagh et al., art. cit.
[12]
Cfr. Robert Ornstein, Evolution of Consciousness – The origins of the way we
think, pp. 208-209, Simon & Schuster, New York 1991.
[13] Robert Ornstein, in qualità di President of the Institute for the Study of Human Knowledge
ha tenuto varie conferenze su questo argomento, affrontato anche nelle sue
lezioni al Medical Center della University of
California at San Francisco e alla Stanford
University.
[14] La “teoria del centro focale” si
deve al nostro presidente e, sebbene non sia ancora supportata da evidenze sperimentali,
finora non è mai stata criticata o contraddetta.
[15] Per soggettività si intende
l’essere soggetto. Anche il concetto di “rinuncia al privilegio di
soggettività” si deve al nostro presidente.
[16] Da informazioni giornalistiche
non verificate sappiamo che l’uso di hashish, derivati dell’oppio, farmaci
allucinogeni, cocaina e altri stimolanti psicomotori è comune fra gli
attentatori.